di Francesco Battegazzorre
La formazione di un governo costruito sull’alleanza dei due movimenti che hanno potuto accreditarsi come i soli vincitori delle elezioni politiche del marzo scorso ha destato e desta larghe preoccupazioni. È vero che gli allarmi provengono prevalentemente, se non esclusivamente, dai versanti dell’establishment nazionale ed europeo, mentre tra i comuni cittadini è possibile che prevalgano attese e speranze. Tuttavia, è giusto riconoscere che si tratta di timori fondati, poiché l’esperimento che sta prendendo forma minaccia di far saltare equilibri – o squilibri – consolidati da tempo.
È normale, ed è dunque legittimo, che si guardi al nuovo esecutivo con simpatia o con sospetto. Ma, quali che siano i sentimenti prevalenti, si dovrebbe nutrire una visione chiara di ciò che invece chiaro non sembra che sia, quantomeno se si guarda ai temi che si agitano nel dibattito pubblico: e cioè che di fronte al nuovo governo si erge un compito immane, con il quale forse nessuna leadership politica di una democrazia avanzata ha mai dovuto fare i conti. Il problema è che i nuovi governanti, nel momento in cui entreranno davvero nelle stanze del potere, si troveranno di fronte uno stato fallito: sotto il profilo morale, culturale e politico, lo stato italiano semplicemente ha smesso di esistere, o forse non è mai davvero esistito. E, senza stato, non c’è ragion di stato, interesse generale o sentimento nazionale: non c’è letteralmente nulla che possa ergersi a criterio di valore su cui fondare un’azione politica dotata di senso e suscettibile di efficacia.
Il complesso delle condizioni e delle ragioni che hanno creato questo drammatico vuoto è stato sintetizzato in un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di qualche giorno fa. Non è necessario aggiungere dettagli al quadro fosco raffigurato da uno dei pochi che sul versante intellettuale sembra disporre della lucidità necessaria per diagnosticare realisticamente la situazione in cui si trova il nostro paese. Basterà riassumere in poche righe qual è il lascito di quella che è stata chiamata “seconda Repubblica”, il cui venticinquennale cammino può essere descritto in una sola frase: un gigantesco, galoppante processo di de-istituzionalizzazione politica e di conseguente disordine morale e sociale. Tale processo ha ridotto in polvere l’autorità dello stato e, per suo tramite, dissolto ogni traccia del principio di autorità in ogni ambito della vita sociale, a partire dal delicatissimo settore dell’istruzione, ridotto a un improprio “mercato”; distorto il funzionamento degli apparati pubblici i quali, privi di una reale guida politica, hanno potuto occultare dietro il paravento di una torbida ideologia managerial-burocratica inefficienza e autoreferenzialità; svilito al di là di ogni limite l’idea stessa di servizio pubblico.
L’effetto più gravido di conseguenze di questa deriva si è manifestato nello sgretolamento del legame comunitario, che in una società moderna ha sempre una dimensione verticale: esso presuppone infatti che le naturali differenze che la complessità sociale crea e moltiplica vengano trascese in capo a un comune centro di identificazione collettiva e a simboli condivisi. A sua volta, la sussistenza di un grado significativo di integrazione comunitaria fornisce la base della solidarietà, e cioè della disponibilità al sacrificio quando le circostanze lo richiedano. L’impossibilità di chiedere sacrifici con l’autorevolezza di chi sa che può chiederli; la disponibilità, a parole, a rispondere a tutto e a tutti, a elevare a diritto qualsiasi domanda inoltrata da chicchessia; l’incapacità di dire pubblicamente, sonoramente di no, salvo poi far passare nascostamente solo quel che ci si illude pesi davvero sulla bilancia del potere: questi sono gli indizi che mostrano che i nostri ex governanti di ieri e dell’altro ieri sapevano, sentivano entro quali limiti angusti era racchiusa la loro autorità. Un governo democratico che non è capace di filtrare in modo aperto e trasparente le pretese che gli arrivano sarà pure democratico, ma non è un governo; un governo democratico che le filtra troppo o a senso unico sarà pure un governo, ma è dubbio che sia democratico. L’Italia, per un quarto di secolo, non ha avuto sostanzialmente un governo e, nelle poche circostanze in cui l’ha avuto, per lo più dandolo in appalto a entità estranee al circuito politico-rappresentativo, non è stato un governo democratico.
Naturalmente, le responsabilità di questo disastro pesano su tutti noi: su un ceto politico improvvisato e inconcludente; su un parlamento ridotto a terreno di transumanza; su una società civile paludosa e arraffona; su un’informazione faziosa e dedita al pettegolezzo quotidiano; su un’intellettualità (incluso chi scrive) accidiosa e vanesia; nonché su una cittadinanza distratta e inerte. Ciascuno di noi, consapevole della parte piccola o grande che ha avuto, dovrebbe sentirsi chiamato a prendere il proprio frammento di croce e posarlo sulle proprie spalle. E dunque anche le responsabilità politiche dovrebbero essere riconosciute e, in omaggio alla serietà del momento, assunte senza riserve.
In questo quadro, sarebbe da considerare risibile, se non fosse la tragica conferma di una totale mancanza di consapevolezza, che il leader pseudo-dimissionario del maggior partito del governo uscente abbia dichiarato di volersi “costituire parte civile” a fronte del governo entrante. È sulle spalle del PD (e prima delle forze che vi sono confluite), da una parte, e su quelle di Forza Italia, dall’altra, che poggiano le principali colpe politiche dello sciagurato bilancio della seconda Repubblica e delle ombre che si addensano sul futuro prossimo. Si deve ammettere che il compito non era facile: l’eredità della repubblica dei partiti avrebbe richiesto una leadership dotata di qualità superiori alla media per rimettere in sesto lo sbrindellato tessuto istituzionale; e si deve anche concedere che il sistema politico non ha avuto il sostegno necessario da parte, innanzitutto, delle principali forze sociali. In particolare, non l’ha avuto da quei poteri sociali che occupano una posizione di enorme importanza in un’economia di mercato: cioè da quella classe imprenditoriale nazionale, specialmente la grande imprenditoria sia finanziaria che industriale, che ha considerato lo stato una grande mucca a cui attingere per decenni e poi, quand’era ormai agonizzante, letteralmente da spolpare. Ma l’ha potuto fare solo perché ha saputo approfittare della complicità suicida di una classe politica indegna di questo nome.
Le attenuanti non bastano dunque, non possono bastare a giustificare un ventennio di azione politica passato a disputarsi le vestigia del potere, salvo, subito dopo averlo conquistato, rimetterne a qualcun altro l’esercizio, permettendo che fosse posto al servizio di interessi anche legittimi, ma di parte, e quasi sempre della stessa parte. Non si può essere sorpresi se, alla fine, un elettorato pur confuso e disorientato ha scelto di dichiarare con voce maggioritaria che, se deve essere governato da qualcuno, quel qualcuno deve essere identificabile: e per esserlo deve stare a Roma, e non a Bruxelles o a Milano; cioè proprio dove sono state cucinate tutte le principali decisioni – e non solo, purtroppo, quelle di politica economica – che hanno prodotto i brillanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti noi. Di tutti coloro cioè che, quotidianamente, percorrono una strada facendo lo slalom tra le buche; entrano in una stazione ferroviaria districandosi tra gli accampamenti provvisori ma permanenti di gente disperata, sperando che il treno ci sia, e già sanno che viaggeranno con il loro regolare biglietto in un convoglio che non è detto che arrivi a destinazione, e in cui altri viaggiatori, a decine, del biglietto sono impunemente sprovvisti; portano i figli a scuola pregando dio che non restino sepolti sotto i calcinacci; entrano in un’aula universitaria ad ascoltare distrattamente una lezione che, quanto più è davvero colta e intellettualmente formativa, tanto più sarà considerata inutile dal potenziale datore di lavoro, saggiamente istruito al riguardo dagli edificanti articoli di Abramavel ospitati anch’essi – alla faccia di una linea editoriale coerente – dal maggior quotidiano nazionale; si mettono disciplinatamente in coda per essere sottoposti un giorno a un esame clinico, sperando che quel giorno arrivi prima che sia troppo tardi. E l’elenco, ahinoi, potrebbe continuare. Invece è opportuno fermarsi, e giungere alla conclusione. E la conclusione, nella sua prosaicità, non può che essere la seguente.
Se e quando, come è lecito temere, si dovrà prendere atto del fallimento dell’esperimento che in questi giorni si sta avviando, sarà bene non dimenticare la terribile eredità che abbiamo consegnato a questi ragazzi. Ciò non li assolverà, ma renderà più onesto ed equilibrato il giudizio.
Lascia un commento