di Alessandro Campi
Quella sulla necessità di ricostruire un centro (politico-partitico) in grado di stabilizzare il nostro sistema istituzionale, messo in fibrillazione dal montare del radicalismo ideologico e dall’affermarsi elettorale di forze che come obiettivo preminente hanno quello di cavalcare la protesta e il malcontento sociale, è una discussione ricorrente nel dibattito pubblico italiano, come dimostrano gli articoli, i commenti e i pronunciamenti di esponenti di partito degli ultimi giorni. Simili a quelli comparsi ed espressi più volte nel corso degli ultimi anni.
Ma è una discussione che, per quanto interessante e necessaria la si voglia considerare, anche alla luce dei tentativi annunciati o in corso di costituzione di un nuovo soggetto politico d’ispirazione in senso lato centrista (da quello promosso da Matteo Renzi a quello che punta a riaggregare politicamente l’arcipelago cattolico-democratico), appare viziata da alcuni equivoci.
Il primo e principale è il modo puramente tattico e strumentale, come tale povero di contenuti e di prospettive progettuali, con cui il centro viene spesso interpretato da molti di coloro che ambiscono ad occupare questo spazio politico. Per costoro stare al centro significa banalmente essere centrali, vale a dire indispensabili per qualunque alleanza o formula di governo. Chi sta al centro, questo il ragionamento, vince sempre per il fatto di essere (e di considerarsi) l’ago della bilancia. Il centro è il luogo del potere (ovvero il punto geometrico migliore per accedervi). Il centro non è dunque una questione di idee o di dottrina, ma una semplice questione di posizionamento.
Dal momento che un simile modo di declinare il centrismo inclina fatalmente verso il mimetismo e il trasformismo ideologico, si comprende perché questa posizione venga spesso associata, nel giudizio dei cittadini, ad una visione deteriore della politica, intesa come manovre di camarille e come pura difesa dei privilegi acquisiti. Il centrismo come opportunismo privo di valori.
L’altro equivoco consiste nel confondere il centro come spazio politico-parlamentare con il centro in senso sociologico-culturale o come area d’opinione. Le due cose non sempre coincidono. Il che spiega perché nella storia italiana recente ci siano stati diversi tentativi di dare vita a partiti o formazioni politiche d’ispirazione centrista (spesso nati da manovre parlamentari e di palazzo o dall’iniziativa di singoli leader) che tuttavia si sono risolti in un fallimento per mancanza di voti. Ciò dipende dal fatto che sul piano della mentalità collettiva e degli orientamenti d’opinione il centrismo non sempre fa rima con moderatismo. Ci sono fasi storiche critiche e difficili, come ad esempio è quella attuale, nelle quali sono propri i ceti sociali mediani – magari perché prostrati dalle difficoltà economiche, afflitti da una grave perdita di status e intimoriti dal loro futuro incerto – ad assumere atteggiamenti radicali e di aperta contestazione nei confronti delle istituzioni. Esiste, stando all’esperienza storica e politica, un estremismo di centro esattamente come esistono quelli di destra e di sinistra. Un estremismo che assume spesso connotazioni anti-politiche e anti-partitiche che difficilmente possono essere ricondotte nell’alveo di una sigla elettorale che si professa moderata e di centro.
Il terzo equivoco ha a che vedere con la sopravvalutazione che spesso si tende a fare, dal punto di vista quantitativo, dell’area politica del centro e con il rilievo strategico che gli si continua ad annettere dal punto di vista elettorale e del consenso. Rispetto al passato, gli elettori che si (auto)collocano al centro o che dichiarano di votare (e di voler votare) per un partito centrista sono oggi un numero sempre più ridotto, come ha ricordato nei giorni scorsi Ilvo Diamanti con riferimento all’Italia. Al tempo stesso, guardando a quel che accade da anni in molte democrazie occidentali, appare sempre meno vero – come si è sempre detto quando le democrazie occidentali erano stabili in virtù soprattutto del benessere economico e dei diritti sociali che garantivano ai cittadini – che le elezioni si vincono al centro. Semmai si vincono sempre più spesso polarizzando al massimo (verso destra o verso sinistra) le proprie posizioni.
Ciò detto, proprio perché siamo alle prese (non solo in Italia) con una crescente radicalizzazione degli elettorati (divenuti al tempo stesso altamente mobili e volatili, dunque più facilmente influenzabili a livello emotivo), proprio perché la demagogia sembra imperare nella propaganda elettorale come nell’attività dei governi, sempre più forte appare in effetti il bisogno di forze politiche capaci di praticare l’arte della mediazione e del compromesso, dotate di un forte senso delle istituzioni, mosse da una solida visione del bene pubblico e non solo da interessi particolaristici. Capaci in altre parole di proporre – cosa che spesso i partiti populisti di destra e di sinistra non riescono a fare – una sintesi politicamente virtuosa tra le esigenze d’innovazione dei settori sociali più produttivi e dinamici, trascurando i quali nessuna società può garantirsi sviluppo e benessere collettivo, e il bisogno di protezione e sicurezza (economica, sociale, psicologica) che proviene dai ceti più popolari e marginali, quelli più colpiti dalle trasformazioni assai repentine indotte dal turbocapitalismo globalizzato.
Con le democrazie contemporanee alle prese con sfide per molti versi epocali: dalla lotta alla disoccupazione alla salvaguardia ambientale, dalla gestione dei flussi migratori alla definizione di un modello economico e di sviluppo produttivo che non sacrifichi i diritti sociali acquisiti; con i regimi politici elettivo-rappresentativi odierni sempre più esposti al rischio speculare del potere delle oligarchie (nel nome della competenza tecnica) e del potere delle masse aizzate da capipopolo fanatici (nel nome dell’autogoverno dei cittadini), ci sarebbe in effetti bisogno di un centro politico-culturale inteso come luogo della ragionevolezza e della moderazione, come area politica segnata da un pragmatismo orientato alle riforme e alla gestione razionale dei problemi complessi che affliggono le società attuali.
Ma un simile centro – ecco il punto – non può nascere dall’alto, grazie all’alchimia di una qualunque legge elettorale, come qualcuno immagina. Tantomeno può nascere se a guidarlo sono leader a loro volta inclini ad una propaganda aggressiva e intrisa di demagogia. Per farlo nascere servono idee orientate al futuro, la capacità di aggregare gli interessi entro una cornice politico-istituzionale unitaria e soprattutto una visione politica radicalmente alternativa, anche sul piano dello stile e del linguaggio, a quella dei partiti e delle culture che sembrano oggi dominanti. Diversamente, la corsa al centro resterà quel che è stata sinora nella politica italiana: da un lato un richiamo nostalgico-retorico ad un mondo scomparso, dall’altro un tentativo ora velleitario ora strumentale, in ogni caso destinato all’insuccesso, di costruire l’ennesimo contenitore partitico ad uso personale.
*Articolo apparso su “Il Messaggero” e “IL Mattino” del 14 novembre 2019.
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