di Alessandro Campi
Sul (doppio) mandato presidenziale di Giorgio Napolitano esiste già una vasta letteratura, destinata a crescere con il termine anticipato e volontario del suo incarico. Analisti e studiosi di diritto costituzionale si sono chiesti, dinnanzi all’interventismo politico-istituzionale che ha caratterizzato la sua permanenza al Quirinale, se per caso non si sia realizzata in quest’ultimo decennio una lenta trasformazione della nostra democrazia, formalmente di stampo partitico-parlamentare, verso una forma di presidenzialismo de facto (un “presidenzialismo parlamentare”, come lo ha definito Giovanni Sartori). Qualcuno, nel fuoco della polemica politica, si è spinto sino a ipotizzare che Napolitano abbia persino trasceso i poteri e le prerogative che la Costituzione gli attribuisce, sino ad assumere nelle sue mani – esautorando il Parlamento, i partiti e con essi i cittadini-elettori – l’indirizzo politico dello Stato.
In realtà, la discussione sull’eccessivo attivismo di cui anche questo Capo dello Stato si sarebbe reso protagonista nasce da un equivoco radicato soprattutto nella pubblica opinione, secondo il quale il ruolo di quest’istituzione – per come sarebbe stato disegnato dai Costituenti – dovrebbe essere solo di garanzia e di rappresentanza simbolica: una sorta di notaio della Repubblica, una personalità super partes destinata a salvaguardare l’unità nazionale, a presiedere in modo puramente nominale il Csm o il Consiglio supremo di difesa, a concedere la grazia e a gestire la nascita dei governi e le loro eventuali crisi secondo un rigido protocollo: il rituale delle consultazioni, l’assegnazione dell’incarico seguendo le indicazioni dei partiti, ecc.
Ma la lettera della Costituzione (assai elastica riguardo i poteri del Capo dello Stato), la dottrina, la prassi istituzionale e la storia della nostra democrazia vanno in tutt’altra direzione. I Presidenti della Repubblica italiana, sin dai tempi di Einaudi, Gronchi (l’inventore delle esternazioni) e Segni, sono stati tutt’altro che soggetti politicamente neutrali o passivi, arrivando in diversi casi ad influenzare in modo determinante la scena politica, le scelte dell’esecutivo e il funzionamento delle altre istituzioni.
Chi ricorda oggi le minacce di dimissioni di Giovanni Leone nel caso di un’apertura dell’esecutivo ai comunisti? In tema di rapporti tra politica e magistratura, come verrebbe giudicato ai nostri giorni il comportamento di Sandro Pertini, che mentre i giudici stavano ancora decidendo della colpevolezza di un minorenne accusato di aver ucciso il padre che maltrattava i suoi famigliari fece sapere di avere la grazia già pronta e firmata in caso di condanna?
Ciò non toglie l’esistenza di un punto di frattura nella storia repubblicana, rappresentato dalla fine della Prima Repubblica e del sistema partitico-istituzionale che l’aveva sorretta: punto dopo il quale il ruolo politico della Presidenza è cresciuto ancora di più. A partire dal 1993-94, infatti, la politica, travolta dagli scandali e delle inchieste, ha perso la propria legittimità ed è finita sotto la tutela di poteri ad essa esterni: prima la magistratura, poi la tecnocrazia bancaria (italiana ed europea). I partiti ideologici di massa sono stati sostituiti da formazioni con un forte tratto personalistico-proprietario. Le riforme costituzionali annunciate e mai realizzate sono state supplite da modifiche della legge elettorale (e da interpretazioni di quest’ultima) che hanno dato vita ad un modello di democrazia maggioritaria (con tratti persino plebiscitari) destinato fatalmente a scontrarsi con l’impianto rimasto rigidamente parlamentarista del nostro ordinamento repubblicano.
Ne sono nate crisi di governo, cambi di maggioranza, esodi di parlamentari, nascite di effimere sigle elettorali e di fragili coalizioni di partiti, che hanno finito per creare un’instabilità diffusa e una crescente paralisi decisionale. Napolitano, come del resto i suoi predecessori Scalfaro e Ciampi, ha operato esattamente all’interno di questo quadro, fattosi ancora più difficile – a causa del sommarsi, a quella istituzionale, della crisi economico-finanziaria – proprio nel corso del suo mandato.
I suoi interventi si sono quindi rivelati decisivi nel risolvere le crisi parlamentari e governative che, nel corso del suo primo settennato, hanno colpito il secondo governo Prodi (in due occasioni: febbraio 1997 e gennaio 1998) e il quarto governo Berlusconi (novembre 2011). Nel primo caso, riuscì a tenere in vita Prodi rinviandolo alle Camere. Nel secondo si ebbe la fine anticipata della legislatura, dopo che era fallito il tentativo di far nascere un governo a termine, presieduto dal presidente del Senato Franco Marini, con lo scopo di approvare una nuova legge elettorale. Nel terzo si arrivò alla creazione, sotto la minaccia di una tormenta finanziaria che rischiava di mettere in ginocchio le finanze pubbliche, del governo tecnico guidato da Mario Monti, subito dopo la nomina di quest’ultimo a senatore a vita.
Ma ancora più decisivo, dopo la sua rielezione all’indomani della drammatica paralisi politico-parlamentare prodotta dalle elezioni del marzo 2013, è stato il ruolo svolto da Napolitano nella nascita del governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta, e dopo la caduta di quest’ultimo per mano del suo stesso partito nel conferimento dell’incarico a Matteo Renzi.
I passaggi politico-parlamentari di queste diverse vicende hanno spesso sollevato polemiche. Come oggetto di discussioni serrate sono state anche altre scelte adottate o sollecitate da Napolitano: ad esempio, nel novembre 2010, quella di subordinare il voto di sfiducia al governo Berlusconi presentato agli inizi del mese dai deputati dissidenti di Fli all’approvazione della legge di stabilità. Il mese di tempo concesso al Cavaliere (il voto si ebbe il 14 dicembre) permise a quest’ultimo di raggranellare una maggioranza in aula e decretò nei fatti la morte politica dell’allora Presidente della Camera. Molti hanno anche criticato, specie negli ultimi tempi, i suoi interventi pubblici su argomenti quali la giustizia, le riforme istituzionali o l’antipolitica, che sono parsi eccessivamente orientati sul piano delle opzioni di valore.
Ma al netto di tutte le possibili (e in ogni caso legittime) critiche che è possibile rivolgere all’operato di Napolitano, occorre sempre ricordare l’eccezionale congiuntura, interna e internazionale, che l’Italia si è trovata ad affrontare negli ultimi anni e che dal punto di vista istituzionale è gravata in buona parte proprio sulle spalle del Quirinale. Cosa sarebbe accaduto all’Italia se Napolitano non si fosse assunto la responsabilità politica di governare l’emergenza e il vero e proprio vuoto di potere prodottosi, in alcuni casi, nella politica nazionale?
Il problema è se dobbiamo aspettarci un simile attivismo anche dal prossimo Capo dello Stato. Ma ciò, come si sarà capito, non dipende solo dalla personalità del nuovo inquilino del Colle, ma dalla capacità del nostro sistema politico italiano a riconquistare la sua autonomia, la sua capacità di funzionamento, un minimo di equilibrio nelle relazioni tra Parlamento e Governo e un rapporto di fiducia con i cittadini.
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