di Vittorio Palumbo

att_717634_0Anche nel nuovo anno, il quadro politico nazionale si evolve senza una vera direzione, prigioniero com’è dei suoi riti e dei suoi bizantinismi, rendendo più che mai attuali le analisi e le considerazioni di un fine pensatore, come è stato Panfilo Gentile.

“Panfilino”, il nomignolo con cui lo chiamavano i suoi amici più cari, nato a L’Aquila nel 1889, si è connotato per essere, fino al momento della sua morte avvenuta a Roma nel 1971, uno degli spiriti più liberi dell’Italia del Novecento, ricoprendo, nello scorrere della sua lunga vita, una moltitudine di ruoli e professioni in linea, d’altronde, con la sua effervescente e poliedrica personalità: professore di Filosofia del diritto all’Università di Napoli, avvocato, uomo politico, saggista, giornalista, collaboratore di “Risorgimento liberale”, “La Stampa”, “Il Mondo”, “Corriere della Sera”, direttore de “La Nazione”, autore di opere fondamentali come Democrazie Mafiose, L’idea liberale, Cinquant’anni di socialismo in Italia, Polemica contro il mio tempo, Opinioni sgradevoli.

A molti, forse, questo nome dirà poco ed è un peccato, trattandosi del liberal-conservatore più fine e genuino, del cervello più lucido ed insieme dello spirito più bizzarro e ricco di talento che la cultura italiana possa mettere in campo, accanto ai grandi maestri della destra europea, come Ortega y Gasset, Aron, Popper, anche se egli, per civetteria e provocazione polemica, amava definirsi “reazionario”, affermando, in Democrazie Mafiose (Ponte alle Grazie, Milano, 2005) che “…Ci sono epoche nella storia in cui si può andare avanti soltanto tornando indietro. Ci sono epoche di decadenza, nelle quali una civiltà che si credeva acquisita si viene disfacendo sotto i nostri occhi costernati…Bisogna ricominciare da capo, tornare indietro e recuperare ciò che si è perduto. Perciò oggi il progresso può significare solo reazione. L’unico modo di essere progressisti è di essere reazionari…”.

Il suo anticonformismo, il suo spirito provocatorio, la sua avversità non solo verso la corruzione del sistema politico ma anche della sociètà italiana, il suo non avere mai “peli sulla lingua”, le sue critiche ironiche e pungenti nei confronti del sistema clientelare e di coloro che con esso si alimentavano, la coerenza del suo agire rispetto alle idee che professava, lo hanno condannato ad una sorta di “damnatio memorae”, che ne ha oscurato la figura di eclettico studioso e di acuto e pungente scrittore.

Quanta attualità, ognuno di noi, può trovare nelle parole proferite nel 1969 (!) da Panfilo Gentile sul “Corriere della Sera” l’11.3.1969 nel corso di un’intervista in cui gli veniva chiesto se ritenesse che la crisi dei partiti politici potesse essere corretta, modificando il sistema elettorale: “…la situazione italiana sembra minacciata da una specie d’impotenza politica della classe dirigente. Formalmente tutto è in regola ma sostanzialmente niente funziona. Il governo non governa ma è governato dai gruppi più risoluti, che lo intimidiscono e lo paralizzano…ci sono i sindacati i quali, tra uno sciopero e l’altro, impongono al governo di assumersi oneri finanziari, per i quali non esistono altre coperture che i debiti e la speranza futura di un maggiore gettito delle entrate…c’è una magistratura che non riesce a rendere giustizia per mancanza di giudici, di locali ed attrezzature…c’è una scuola che quando non è in contestazione o in sciopero, non ha insegnanti di ruolo, né edifici…c’è una burocrazia che, per vetustà di leggi, non riesce nemmeno a spendere i fondi messi a sua disposizione. Tutti si agitano, tutti chiedono e il governo cede, abdica, si umilia promettendo leggi, improvvisando riforme e, soprattutto, dilatando sempre più la spesa pubblica. Perché tutto ciò? Perché la classe politica…è governata da una coalizione apparentemente di tre partiti, effettivamente di almeno cinque fazioni, spesso in dissenso reciproco e più spesso ancora in dissenso interno…potrebbe la classe politica auto-corrergersi? Anche i miracoli si dice che avvengano. Ma, senza un atto di fede, la realtà ci fa vedere un sistema rissoso di partiti e sotto-partiti, culla di passioni ideologiche e di ambizioni personali inconciliabili…”.

Panfilo Gentile non si stancò mai di chiamare, soprattutto nei suoi articoli di fondo sul “Corriere della Sera” in materia di politica internazionale ed economica, pubblicati a partire dal 1956 fino al 1970, le cose con il loro vero nome, anche quando per farlo bisognava pagare un prezzo, apparire bastian contrari, contrastare i luoghi comuni dell’egualitarismo ed il suo spirito provocatorio si spinse fino al punto di attaccare il massimo tabù dell’epoca, la democrazia, facendone notare i limiti e le pecche. A suo giudizio, infatti, il suffragio universale conduceva necessariamente alla partitocrazia, ad un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti, tirapiedi . Di qui la fondatezza e la fortuna del termine partitocrazia, appunto, che Panfilo Gentile forse non inventò, in quanto il merito viene di solito attribuito al costituzionalista Giuseppe Maranini, ma di certo impose, con veemenza, al vocabolario politico italiano (D. Fertilio, “Corriere della Sera”, 18.9.2005).

In Democrazie mafiose così specificava cosa intendesse per tale definizione: “…Come io le ho individuate, le democrazie mafiose sono rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni della maggioranza e rispetto delle minoranze), riescono ad esercitare il potere ed a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altri termini le democrazie mafiose sono regimi di tessera, né più né meno dei veri e propri regimi totalitari…si tratta, in definitiva di un’unica e stessa tessera: quella o quelle privilegiate di coloro che stanno al potere…la tessera del potere…”.

Occorre precisare comunque, come ben spiegato da Sergio Romano (“Corriere della Sera”, 26.4.2014) che, in tale opera, Panfilo Gentile non usò la parola “mafioso” nel senso strettamente siciliano. Le mafie, nelle sue analisi, erano le clientele, le consorterie, le cricche, i cartelli, i clan professionali, tutte le organizzazioni che si erano progressivamente impadronite del corpo sociale italiano e non avevano altro scopo, nell’amministrazione della cosa pubblica, fuor che quello di proteggere ed ampliare il feudo dei loro interessi. Gentile fu tra i primi ad accorgersi che l’Italia, a dispetto della sua “bella” Costituzione, era diventata una partitocrazia, vale a dire un sistema il cui potere era uscito da Palazzo Chigi e da Montecitorio, per trasferirsi nelle segreterie dei partiti, sviluppando in lui una sorta d’intolleranza allergica agli ipocriti conformismi che stavano creando una nuova retorica nazionale, vacuamente progressista e non meno stucchevole di quella che aveva dominato l’Italia fascista. Di ciò egli se ne accorse sul campo dirigendo La Nazione di Firenze e assistendo dall’interno alla crisi del partito liberale, di cui era diventato consultore nazionale. Lo infastidivano, in particolare, gli articoli e le trasmissioni radiofoniche o televisive in cui si lasciava intendere che la responsabilità di ogni sventura fosse del capitalismo e dei padroni, alimentando in lui, così, quella peculiare capacità di critica che lo portò ad essere uno dei pochi commentatori politici di quell’epoca, capace di sgonfiare i palloncini dei luoghi comuni e delle formule corrette che stavano inquinando il linguaggio nazionale.

L’attualità della concezione liberale di Panfilo Gentile consiste, allora, nell’aver compreso che il problema preminente, nell’ambito del sistema politico italiano afflitto da endemiche magagne etico-sociali, ora come allora, “…resta ancora quello di difendere l’individuo dal Potere, dai suoi abusi, dalla sua invadenza. Un ordinamento liberale è, prima di tutto, un ordinamento nel quale il Potere riceve delle regole e dei limiti; perché per il liberalismo è lo Stato che esiste per l’individuo e non sono gli individui che esistono per lo Stato…” (L’idea liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002).

L’auspicio è, dunque, che si concretizzi una riscoperta di questo geniale osservatore dei costumi politici italiani, oppositore irriducibile del “burocraticamente corretto”, troppo spesso colpevolmente trascurato dal mondo scientifico, culturale, accademico, così come anche ricordato in una delle sue Stanze da Indro Montanelli, il quale soleva dire parlando di “Panfilino” che “…il fatto che nelle librerie non si trovi più traccia di lui perché nessun editore ha più sentito il bisogno di ripubblicare dei saggi come Cinquant’anni di socialismo in Italia, Il genio della Grecia, L’idea liberale, significa che la cultura italiana non ha più nessuna idea di cosa sia la Cultura e quali siano i suoi veri valori…” (“Corriere della Sera”, 21.1.1997), per farci, ancora una volta di più, apprezzare l’universalità delle idee liberali, non esistendo paese al mondo in cui ridurre il ruolo dello Stato e far si che i politici debbano rendere conto del loro operato agli elettori, non avrebbe effetti positivi.

 

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