di Leonardo Raito
Un voto frammentato e un governo anomalo
Viviamo in un’epoca di crisi, in un paese in profonda depressione, e il sistema politico sta attraversando una fase terminale, di decomposizione, che senza rimedi urgenti e non rinviabili farà fatica a rialzarsi. Presento qui un quadro a tinte fosche e non potrebbe che essere così. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, diceva un vecchio proverbio e temo davvero che gli italiani dovrebbero piangere se stessi, autocommiserarsi, per tutta una serie di errori madornali, frutto dei vizi profondi che contrassegnano il nostro paese, i suoi particolarismi, gli interessi di piccolo cabotaggio che non fanno emergere mai un sentiero ispirato a un’idea di bene comune, di progresso, di passi avanti.
Il governo a trazione Cinque Stelle e Lega è stato la conseguenza di anni di scelte sbagliate, di partiti guidati da mediocri, di un personalismo spinto, di una società liquida che non aiuta a ricostruire un sistema di rappresentanza e di intermediazione che sarebbe l’essenza stessa della democrazia rappresentativa. Ma la cosa più incredibile è che, dopo anni in cui un popolo sempre più assonnato e arrabbiato protestava contro i governi non eletti e non rappresentativi, questo di Conte è un governo nato da un accordo irrispettoso della volontà degli elettori. Non certo per colpa loro, ma per una legge elettorale infausta i cui effetti deleteri siamo qui a pesare oggi. Eppure è stata una legge di tipo proporzionale, con il proporzionale voluto da tutti i partiti, perché fotografava il nuovo sistema tripolare, perché era più rispettoso dell’elettorato e così via. Allucinante. Pensare che il dibattito sulla legge elettorale è passato sotto silenzio, che nessuno ha protestato, che non si è riempita una sala per un dibattito o una piazza per una protesta o un’idea alternativa, dà il senso di quanto sia in crisi questo paese.
Nessuno si è occupato delle regole del gioco, degli effetti del sistema elettorale. Oggi ci ha regalato novanta giorni di tira e molla, di trattative estenuanti, di cambi di fronte, di un presidente della repubblica che, in certi passaggi, sembrava non sapere più che pesci pigliare. L’esito del voto collegato alla legge ha prodotto instabilità, riflessi sull’economia e sui mercati, scarsa fiducia nelle potenzialità del paese. Sono bastate poche dichiarazioni e la pubblicazione di stralci del contratto di governo, l’incredibile formula inventata per mascherare l’accordo di potere, per far sobbalzare dalle sedie gli analisti di mezzo mondo. Lo spread è volato, abbiamo bruciato risparmi, valore di aziende quotate, ma stiamo qui a chiederci perché. Non abbiamo ancora capito che il nostro paese è legato da vincoli più ampi, che ha un debito pubblico stellare. Non abbiamo ancora capito chi siamo e dove vogliamo andare
È possibile ancora avere fiducia?
Fiducia? Ne ho poca, pochissima. Quando entro in un’aula universitaria in quella che fu la facoltà di scienze politiche a Padova e chiedo a 200 giovani quanti facciano politica o siano impegnati in un consiglio comunale, in un movimento, in un’associazione e non vedo una mano alzata, mi faccio tante domande. Ci deve essere qualcosa che non va. Ma erano gli stessi dubbi che mi attanagliavano quando il dibattito sulla legge elettorale veniva derubricato a “questione tecnica che non interessa il popolo, lontana dalla gente” dimenticando che la legge elettorale è la base di tutto, detta le regole del gioco e non si può giocare in politica senza conoscere bene le regole e quello che le regole possono produrre. Le elezioni del 2018 sono state una catastrofe. Ma non solo per i partiti usciti ridimensionati dal voto. Io le considero una catastrofe per il paese, un paese accartocciato su se stesso e che non è in grado di reinventare spazi di dibattito, di riflessione, di politica vera.
Eppure qualcosa è emerso in modo chiaro. In primis, le previsioni elettorali, che con chiarezza ritenevano non si sarebbe prodotto un vincitore chiaro, anche se ignoravano le proporzioni dell’incertezza. Non molti avevano preventivato che il centrodestra, che molti prevedevano vincente, avrebbe visto una Lega sopravanzare, e non di poco, Forza Italia. Pochi ritenevano che il Pd sarebbe sceso, dilaniato dagli scontri interni e logorato dall’essere stato per cinque anni colonna portante dei governi, sotto il 20%. Pochi prevedevano l’inconsistenza totale della sinistra. Molti, invece, avevano visto larghe prospettive per i grillini. E qui viene il primo problema, il proporzionalismo che non ha prodotto una maggioranza certa di governo, obbligando, tra l’altro, il presidente della repubblica Mattarella a una difficile gestione di una crisi anomala, con il capo dello stato a giocare una partita quanto meno irrituale. Mattarella ha condotto bene le danze? I commentatori, su questo punto, si dividono. Io credo che, in qualche passaggio, il presidente, pur avendo mantenuto uno stile e una sobrietà apprezzabili, abbia sbagliato, finendo per farsi mettere sotto scacco. La cosa più grave, però, è che in un certo momento si è come segnato un solco profondo tra l’istituzione e i cittadini. Le celebrazioni del 2 giugno hanno chiuso, almeno mediaticamente, la partita, ma come possiamo dimenticare?
Possiamo dimenticare che il presidente della repubblica è stato accusato pesantemente dal leader dei Cinque Stelle Di Maio, oggi ministro del lavoro (pare) alla prima occupazione, che ha addirittura invocato la procedura di impeachment? Possiamo dimenticare che Mattarella è stato fatto oggetto di lettere anonime contenenti proiettili, classici avvertimenti in stile mafioso? Io credo che si tratti di cose su cui è impossibile sorvolare. Una democrazia normale dovrebbe passare anche da uno stile retorico capace di indirizzare senza infiammare, uno stile che sappia capire e interpretare le paure della gente ma non voglia, per forza, sguainare la spada della rabbia e cavalcarla, alimentandola con promesse irrealizzabili. Governare significa assumersi delle responsabilità: troppo facile è continuare a sparare e urlare nelle piazze alimentando dissapori. Le fratture occorre ricomporle, non ampliarle. E chi governa deve governare per tutti, non solo per il popolo dei gazebo o per i seguaci della piattaforma informatica di Casaleggio. Ma questo, oggi, per gli italiani più preoccupati dal tema immigrazione che dal lavoro, dalla famiglia, da una scuola sempre più sguaiata, pare non contare nulla.
Minoranza? Se ci sei batti un colpo.
Di certo lo stato di fatto è anche merito di opposizioni inesistenti. Se Pd e Forza Italia non sapranno reinventarsi come soggetti, come ha scritto in un bell’editoriale recente Angelo Panebianco, comprendendo come, in una società così profondamente cambiata e disarticolata, i loro spazi ci sono e vanno coperti, il paese attraverserà una lunga e pericolosa fare populista. Già, il termine populista lo possiamo utilizzare e ridisegnare e sta a significare non chi fa gli interessi del popolo, ma chi segue esclusivamente gli umori delle piazze. Questo sarà sufficiente per vincere le elezioni, ma poco utile per governare bene. Ma il Pd e Forza Italia hanno bisogno di liberarsi di fantasmi che tengono i due partiti oppressi. E sono i fantasmi delle loro leadership assenti.
Renzi, dopo il referendum perduto, è uno spettro pericoloso in quanto pare mettersi in disparte ma è sempre pronto a farsi sentire, impedendo l’elaborazione di linee programmatiche autentiche, mediate, valutate. Che cosa vuol fare il Pd da grande? Non sarà che occorre già decretare la morte di un partito che ha solo dieci anni di vita e che era stato accolto con grandi speranze? Berlusconi ha perso del tutto la verve che l’aveva reso grande. Il peso dell’età e di una pretesa e assoluta fedeltà al proprio verbo, non ha permesso l’emergere di una classe dirigente nuova e all’altezza di una sfida liberale e moderna. Forza Italia si è ridotta a un contenitore di notabili territoriali che si spartiscono quel poco che resta e che non riesce a leggere esigenze e necessità di una società profondamente trasformata da quel 1994 della discesa in campo. Non vedo purtroppo, in questo marasma, una luce in grado di farci scorgere orizzonti nuovi. Il paese deve reagire, piuttosto che scontare il rischio di rimanere schiacciato in una sorta di nuova colonizzazione, non solo economica, ma anche politica.
Lascia un commento