di Luca Marfé
Conservatore, nazionalista, populista, sovranista, euroscettico e soprattutto di destra.
Il premier ungherese Viktor Orbán, ma in fondo anche il presidente statunitense Donald Trump. Che proprio in Europa, a dispetto degli alleati storici, cerca nuovi appigli per reinventare la sua influenza.
E allora eccolo l’incontro tanto atteso, più che dai diretti interessati, dai media di mezzo mondo. Va in scena a Washington, tra pareti e muri. Le prime sono quelle della Casa Bianca. I secondi sono quelli cui i due leader ambiscono pur di tenere lontani dai rispettivi paesi quegli immigrati che senza troppi giri di parole considerano una piaga da debellare.
Il summit del filo spinato, agitato da una feroce narrativa dell’altro, peggio ancora del diverso, in cui a prevalere devono essere solo e soltanto gli interessi nazionali. Non si capisce bene in che modo possano sovrapporsi quelli dell’Ungheria a quelli degli Stati Uniti e viceversa, ma Orbán e Trump sono un trionfo di sorrisi, pacche sulle spalle ed espressioni di amicizia improvvisa e improvvisata.
«So bene che è uno tosto, ma è un uomo rispettato», esordisce il tycoon. «È un po’ come me, in fondo ci assomigliamo», continua, «forse controverso, ma ci sta, è ok».
“Ok” al punto che era stato scientificamente evitato dalle amministrazioni a stelle e strisce per circa vent’anni.
L’ultima volta di Orbán alla Casa Bianca risale al 2001, occasione in cui gli furono comunque negati lo Studio Ovale e il bilaterale con Bush. Scansato poi dai democratici, si ritrova oggi qui nelle vesti di un quasi ospite d’onore. Lui che in un passato anche molto recente non ha esitato ad alzare la voce sul concetto di razza.
«Non vogliamo essere differenti, non vogliamo che la nostra pelle, che le nostre tradizioni e che la nostra cultura nazionale possano mescolarsi con quelle degli altri».
Così in un discorso del 2018 infarcito di prese di posizione nette, come neanche troppo in fondo piacciono a Trump e ai suoi.
Non deve sorprendere, dunque, che nessuno della “sua” America abbia un granché da inorridire.
Anzi.
Del resto Steve Bannon, al tempo consigliere e capo stratega di The Donald, ha coniato per il primo ministro ungherese l’etichetta di “Trump prima di Trump”, ovvero di una sorta di versione primordiale del tycoon, istituzionalizzatosi poi alla corte di Washington.
Ammesso e non concesso che questo sia mai successo.
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