di Luca Marfé
NEW YORK – L’economia, il lavoro, la Corte Suprema: Trump non si ferma più. Prossima fermata: le elezioni di midterm.
Le ultime due settimane tracciano una scia positiva senza precedenti per il tycoon, protagonista di quello che è di gran lunga il suo miglior momento sin dal giorno in cui si è insediato alla Casa Bianca. Protagonista tra le proteste che, tuttavia, non sono state sufficienti ad arginare una furia politica fatta di annunci roboanti e di un’estetica talvolta scomposta, ma evidentemente anche di risultati concreti.
Il prodotto interno lordo degli Stati Uniti ha tagliato un traguardo importante.
«Per riportare il Pil sopra la soglia del 4% gli ci vorrà una bacchetta magica». Con queste parole, pronunciate in pubblico durante una trasmissione televisiva, Barack Obama si preparava a cedere il testimone al suo successore. Con questi dati, celebrati di recente su Twitter, gli ha risposto Donald Trump: il colosso a stelle e strisce lanciato verso la mostruosa cifra di venti trilioni di dollari e tasso di crescita del 4,1%.
Idem, e forse ancora meglio, sul fronte del lavoro. Con la disoccupazione più bassa dal 1969 ad oggi: 3,7%. Praticamente inesistente perché considerata fisiologica, “naturale”.
E infine Brett Kavanaugh, nuovo giudice della Corte Suprema, il secondo piazzato da Trump in meno di due anni. Un piccolo capolavoro di prepotenza e di testardaggine che consente al primo cittadino d’America di riuscire là dove avevano fallito Reagan, Bush padre e figlio, Romney e McCain: consegnare ai repubblicani una maggioranza di destra tra le mura del tribunale costituzionale più alto del Paese.
Non solo.
La nomina di Kavanaugh è la vittoria di tutto il trumpismo. Della sua nuova (vecchia) visione delle cose. Delle sue nostalgie, appunto. Della sua forza, addirittura ostentata.
È la sconfitta del #MeToo, degli Stati Uniti globali, aperti e tolleranti che aveva immaginato e in qualche modo costruito Obama. Gli stessi che avrebbe voluto tramandare alla compagna di partito Hillary Clinton. Quelli e colei cui gli elettori, però, hanno sbarrato la strada.
«Siamo passati da “Noi, la gente” a “Io, il presidente”».
È con questa battuta, amara, che l’ex segretario di Stato Colin Powell ha spiegato la metamorfosi in atto.
Ed è proprio in questa atmosfera personalista e divisiva che il tycoon dà il meglio di sé.
Ed è proprio sulla base dei successi maturati, nonché sulle macerie del Partito Democratico, che Trump rischia di far vincere ai repubblicani anche le elezioni di metà mandato.
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