di Luca Marfé
Non c’è luce in Venezuela. Non in fondo al tunnel di un Paese interrotto.
A Caracas è sempre notte. Anche di giorno, mentre si stabiliscono nuovi minimi e mentre si toccano nuovi fondi.
Un mese fa il blackout: 100 ore di buio, zero acqua potabile, mille accuse incrociate e nessuna soluzione.
Con un unico grande rischio ad emergere su tutti quanti gli altri: che la rassegnazione prevalga sulla rabbia.
Nel frattempo, Maduro gioca le carte della disperazione.
In primo luogo, si serve della giustizia nel tentativo di infliggere il colpo di grazia alla politica. Chiede cioè al suo fedelissimo Elvis Amoroso, da lui nominato “controllore generale” a capo dell’equivalente di una sorta di corte dei conti, di interdire per i prossimi 15 anni il nemico giurato Juan Guaidó da qualsiasi incarico pubblico.
Detto, fatto.
Con annessi tanti cari saluti alla Comunità Internazionale che ha riconosciuto lo stesso Guaidó come presidente ad interim nonché ultima speranza.
Un destino, il suo, che se prima sembrava in salita, oggi assomiglia a una missione impossibile o quasi.
Non solo.
L’erede di Chávez, ben consapevole di non potercela fare da solo, continua a tessere con fare approssimativo ma caparbio la sua tela mondiale e nello specifico anti-americana.
E allora ecco spuntare i russi.
Putin, infatti, ha grandi progetti in orbita Caraibi, dove pare possa addirittura ambire a delle basi militari, e comincia col prestare proprio a Maduro un centinaio di soldati, forse persino dei mercenari sottobanco, ma soprattutto un appoggio di peso in grado di per sé di scoraggiare a monte qualsiasi iniziativa di Donald Trump.
Nessuno tocchi il Venezuela, insomma.
Perché alla sue spalle adesso non c’è più “soltanto” la Cina, ma anche la Russia. “Soltanto” si fa per dire, naturalmente, considerate dimensioni e forza del dragone. Ma Mosca rilancia, copre le spalle a un altro dittatore (Assad docet) e di fatto getta l’intero scenario nel fondo di una stasi potenzialmente priva di un epilogo.
Complice anche una certa cultura venezuelana per cui il popolo, forte di un’allegria e di un entusiasmo proverbiali, tende ad abituarsi un po’ ad ogni cosa. Anche a ciò che fino ad un attimo prima appariva come inimmaginabile per una nazione che appena alcuni decenni or sono è stata simbolo e capofila di uno sviluppo e di una crescita economica senza eguali.
«Yo me quedo en Venezuela porque yo soy optimista», «Io resto in Venezuela perché sono ottimista».
Risalgono oramai a qualche tempo fa le parole di speranza e di resistenza firmate da Carlos Baute, cantautore molto popolare e molto amato alle latitudini di Caracas.
La verità, però, è che se n’è andato pure lui.
Se ne sono andati tutti.
Tutti coloro che hanno avuto la possibilità o comunque il coraggio di farlo.
Altri invece sono rimasti, intrappolati in vent’anni di socialismo, là dove la vita e la storia sembrano essersi interrotte.
Come la corrente elettrica di un Paese senza luce.
Lascia un commento