di Alessandro Campi
Sono tanti i temi sui quali i partiti, nell’interesse dei cittadini che dovranno votarli, potrebbero scegliere di confrontarsi in vista delle prossime consultazioni politiche: il governo dell’immigrazione, la lotta alla disoccupazione e alla povertà, le pensioni, la salvaguardia ambientale, le azioni a sostegno della famiglia, il rilancio degli investimenti produttivi, la riduzione delle tasse, la digitalizzazione della pubblica amministrazione, il declino demografico, il sostegno agli anziani, l’europeismo e la collocazione internazionale dell’Italia, il federalismo, le spese per l’istruzione e l’università, i controlli sulle banche e sulle attività finanziarie, la valorizzazione del turismo e dei beni culturali, il dissesto idrogeologico del territorio, il contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione, la riforma della giustizia, gli incentivi al lavoro giovanile, il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica, la rigenerazione delle periferie e la ricerca di un nuovo modello di sviluppo urbano, ecc.
L’imminente competizione elettorale rischia invece di giocarsi sul ritorno del nazi-fascismo e delle camicie nero-brune. Il passato remoto del nostro Paese, rievocato ad arte in mancanza di altre idee e nell’incertezza sul futuro che ci aspetta, ridiventa tema di battaglia politica nel presente. Riusciremo a risparmiarci, nei pochi mesi che mancano al voto, una simile regressione e un così cattivo spettacolo?
In effetti non ci sono mai stati così tanti nazisti in Italia come da quando se ne denuncia tutti i giorni la marea montante, dalle sponde del lago di Como al litorale di Ostia. Esistono le bolle finanziarie, ma evidentemente anche quelle mediatiche. E non è detto che queste ultime facciano meno danni. Se c’è nella Penisola tanta nostalgia del fascismo, come spiegano certe cronache con tono d’allarme, è anche vero che c’è anche tanta voglia di antifascismo. Soprattutto in certe frazioni della sinistra politico-culturale più militante. Si perdono lettori, si perdono elettori, e si pensa evidentemente di riacchiapparli facendo appello alla storia e alle battaglie ideologiche di un tempo. A costo di strumentalizzare la prima e di aggrapparsi al ricordo di una stagione politica irrimediabilmente finita, fatta sì di grandi passioni ma anche di colossali abbagli e di nemici che semplicemente non ci sono più.
Si dice giustamente che la banalizzazione del fascismo, sino a ridurlo ad una maschera grottesca o a un episodio della commedia dell’arte italica, sia un grave errore storico e culturale. Ma lo è anche la nazificazione del mussolinismo, elevato a male metafisico assoluto per banali scopi di propaganda politica. Sono due errori speculari, che non si elidono ma si sommano, rendendo difficile la comprensione della storia italiana e dei suoi sviluppi.
Così come è sbagliato amalgamare sotto l’etichetta troppo omnicomprensiva di fascismo, usata alla stregua di una clava simbolica delegittimante, tutto ciò che non piace dei propri avversari politici. Non è vero, come si ripete da un quarto di secolo, che se gratti il faccione sorridente di Berlusconi trovi in realtà il ghigno del Duce. Che la destra negli anni della Repubblica non abbia fatto i conti con il suo passato. Che le minoranze radicalizzate dell’estrema destra odierna siano l’avanguardia combattente della maggioranza moderata e silenziosa, secondo un continuum politico-sociale che andrebbe dal Cavaliere a Casa Pound passando per Salvini. Che gli italiani, ovviamente quelli che non votano a sinistra, siano fatalmente attratti dalla mistica del capo assoluto e poco avvezzi al pluralismo per antropologia e carattere. O che il populismo (Grillo incluso) sia il fascismo vestito con l’abito del giorno di festa per rendersi appena più presentabile. La sinistra continua a chiedere agli altri esami di coscienza e attestati di buona condotta: ma evidentemente ha anch’essa fantasmi, ottusità ideologiche e forme di coazione mentale dai quali non riesce a liberarsi.
Beninteso, nelle nostre società (Italia inclusa) esistono da sempre le frange lunatiche, gli estremisti, gli intolleranti nel nome della razza o di una cattiva idea di patria, quelli che coltivano la mistica della sconfitta o che si dilettano con i simboli della perversione politica (a partire dalla svastica). Ma se oggi hanno tanto visibilità pubblica non è per il consenso di massa che raccolgono, ma ad esempio per le contraddizioni di un sistema dell’informazione che spesso si alimenta, pur di accrescere lettori e pubblico, proprio dei pericoli che denuncia con veemenza e che altrettanto spesso drammatizzando la cronaca la trasforma in spettacolo e attrazione. Per combattere queste minoranze politicamente infime non servono leggi speciali o mobilitazioni di massa. Basta considerarle per ciò che sono: residui patetici di un passato che non tornerà nemmeno se a invocarlo sono frotte di nuovi apprendisti stregoni.
Voler far credere che le democrazie siano oggi in crisi per colpa dell’estremismo nero che dilaga tra i giovani e i soliti borghesi ignavi o complici rappresenta oltretutto un imbroglio intellettuale, frutto di una cattiva analisi del tempo presente. Nella migliore delle ipotesi, si confonde l’effetto con la causa. Nella peggiore, si crea un comodo bersaglio polemico – il fascismo come malattia eterna della politica e minaccia sempre incombente sulla nostra vita collettiva – per non ragionare sulle ragioni reali che hanno portato milioni di cittadini, ovunque in Europa, a nutrire sentimenti crescenti di sfiducia nei confronti della politica, dei partiti e delle istituzioni. Lo spettro di un nuovo totalitarismo non può funzionare da alibi per la corruzione delle odierne classi dirigenti, per l’inettitudine dei governi liberamente eletti o per l’incapacità delle vecchie culture politiche a tenere il passo con i cambiamenti della storia.
Su cosa ci divideremo dunque nei prossimi mesi? Sull’ombra sinistra di Hitler e Mussolini o su come (due temi a caso) rilanciare l’occupazione giovanile e dare all’Italia una seria politica energetica? La domanda viene voglia di rivolgerla soprattutto a Matteo Renzi. E’ entrato in politica dicendo che bisognava liberarsi dall’antiberlusconismo militante e dalle divisioni ideologiche frontali, per guardare al futuro e parlare ai cittadini, in particolare alle nuove generazioni, dei loro problemi reali. Finirà per cadere nella trappola e per mettersi a capo di una coalizione che gli chiederà di salire metaforicamente in montagna col fazzoletto rosso al collo a combattere i fascisti immaginari tornati da Marte ad invadere l’Italia?
* Editoriale apparso su ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 1° dicembre 2017.
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