di Alessandro Campi
Conclusa la campagna elettorale, aperte le urne, contati i consensi ai diversi partiti scopriremo che anche questa volta abbiamo votato per l’Europa senza discutere di Europa. Ci è stato spiegato che domenica prossima in realtà ci sarà da fare, non solo in Italia, una scelta drammaticamente dirimente tra “europeisti” e “populisti”: democratici specchiati i primi, pericolosi avventurieri i secondi. Ma aver impostato l’intera discussione su questo manicheismo ideologico è esattamente ciò che ha impedito di mettere a confronto le strategie, le visioni, le critiche e le proposte degli uni e degli altri.
I “buoni” si sono trincerati dietro la retorica di un’Europa dell’inclusione e del progresso che è il nostro destino ineluttabile, i “cattivi” dietro l’allarmismo di un’Europa dei tecnocrati che rischia di privarci della libertà e di portarci alla rovina economica. E dunque non si è parlato per nulla di come riformare un’Unione che nel suo funzionamento attuale in realtà non piace nemmeno a coloro che ne sono partigiani a oltranza.
Macron è stato l’unico, tra i grandi leader, che ha provato a formulare qualche idea finalizzata a rilanciarne il progetto politico e l’immagine presso i cittadini del continente. In materia di sicurezza e immigrazione, che pare essere l’ossessione di quest’epoca, ha proposto ad esempio la costituzione di una forza di frontiera comune e di un ufficio europeo per l’asilo. Ha suggerito altresì la costituzione di una Banca europea del clima, l’introduzione di un salario minimo garantito europeo e di nuove regole sulla concorrenza a difesa del ‘made in Europe’. Ma soprattutto ha posto il problema della modifica dei trattati che attualmente regolano la vita interna dell’Unione, da realizzare operando un maggiore coinvolgimento dei cittadini e dei diversi attori politici e sociali.
Proposte per definizione discutibili e parziali, iscritte peraltro nella cornice un po’ troppo enfatica di un rinascimento europeo del quale Macron vorrebbe essere l’ispiratore intellettuale e l’architetto politico, ma che forse meritavano una discussione pubblica che invece semplicemente non c’è stata. Una discussione che doveva essere su temi politico-istituzionali concreti e non ispirata da generici allarmismi e da opposti isterismi: lo scoppio di una nuova guerra causata dal ritorno dei nazionalismi, la catastrofe ambientale che si realizzerà nel 2030 perché ce lo ha detto una ragazzina, la scomparsa della civiltà cristiano-europea a causa di milioni di immigrati musulmani dall’Africa, e via impaurendo le masse da destra e da sinistra.
Poteva allora andare come è sempre andata nei decenni precedenti, quando si votava per eleggere i parlamentari europei ma a partire dai problemi interni di ogni singolo Paese. Ma nemmeno questo è successo, almeno in Italia. Da un lato, c’è stata la polarizzazione dell’intera campagna elettorale sulla persona fisica di Matteo Salvini, favorita certamente dai suoi strateghi e consulenti d’immagine, ma scioccamente avallata e subìta dagli avversari, che facendo esattamente il suo gioco sono arrivati ad attaccarlo su tutto (dalla fidanzata alle felpe, dai trasferimenti sugli aerei di Stato ai rosari branditi nei comizi, dagli esibizionismi gastronomici sui social al trauma infantile di quando gli rubarono il pupazzetto di Zorro) e ad imputargli ogni nefandezza ideologica (tipo essere un Hitler con la barba incolta al posto dei baffetti). Dall’altro, ci si è fatti prendere mediaticamente dallo scontro quotidiano, su ogni possibile tema, tra i due alleati di governo: talmente acceso e spettacolare da rendere plausibile il sospetto che quella condotta da Matteo e Luigi sia stata un’abile recita, finalizzata a galvanizzare i rispettivi elettorali e dunque destinata a non produrre, dopo il voto, alcuna rottura.
Il risultato è che non s’è parlato di nulla di politicamente cogente, di nessuna questione realmente spinosa o dirimente. Tutto rimandato (nella migliore delle ipotesi) a dopo il voto: ad esempio in materia di sicurezza, di giustizia, di flat tax, di grandi opere infrastrutturali, ecc. Nessun dibattito serio (a parte qualche generico e sporadico accenno) sulle maggiori competenze legislative, amministrative e tributarie richieste da alcune Regioni italiani allo Stato centrale: un progetto caro ai leghisti, gestito dagli interessati nel massimo silenzio e che però potrebbe mettere realmente a rischio l’unità nazionale. Nessuna discussione infine sulle scadenze economico-finanziarie che aspettano l’Italia nel prossimo autunno (col rischio serio di un aumento miliardario dell’Iva).
Solo due cose si sono capite durante la caotica e polverosa campagna elettorale appena conclusa. Che il “contratto di governo”, sommatoria di programmi che nessuno ha cercato di conciliare secondo le preziose regole del compromesso politico, funziona solo quando si tratta di assecondare i rispettivi appetiti in materia di lottizzazione e spartizione delle cariche. Che le opposizioni del Pd e di Forza Italia, per quanto generosamente si affannino, ancora non sono riuscite a sviluppare una proposta credibilmente alternativa a quella giallo-verde, che dunque rischia di andare avanti per inerzia.
Dunque domenica voteremo e ci conteremo. Stando almeno ai sondaggi dovrebbero vincere i populisti-sovranisti. Ma un’altra cosa di cui non si è parlato in queste settimane è cosa questi ultimi, essendo fino a prova contraria alla guida del Paese, con la possibilità tutt’altro remota che vi restino, faranno con i consensi ottenuti. Cosa chiederemo come Paese agli altri Stati, cosa concretamente cercheremo di ottenere, di quali proposte e di quali interessi saremo portatori? Visto che l’Unione ancora funziona su una base statual-governativa, il governo giallo-verde in carica si è dato qualche obiettivo, di quelli che in Europa si ottengono però non spaccando i tavoli o minacciando il prossimo, ma mediando, trovandosi alleati e facendo blocco con altri Stati membri, dando qualcosa per ricevere qualcos’altro, favorendo scambi e accettando compromessi, muovendosi d’intesa con tutti i partiti del proprio stesso Paese ecc.?
Ad oggi, tanto per andare sul prosaico, abbiamo come Paese tre cariche di rilievo, piacciano o meno coloro che le occupano: la presidenza della Bce (Draghi), quella del Parlamento Europeo (Tajani) e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri (Mogherini). Nei prossimi mesi da chi, ma soprattutto a quale livello istituzionale, sarà rappresentata l’Italia entro i diversi organi dell’Unione? Ecco una bella domanda da sovranisti che i sovranisti nostrani sembrano non essersi porti, avendo invece preferito, da un lato, litigare con tutti quelli con cui si poteva litigare (da Juncker all’ultimo degli uscieri di Bruxelles) e, dall’altro, soprattutto la Lega, cercare accordi e intese con forze e partiti che hanno il piccolo difetto di essere sovranisti sul serio e dai quali l’Italia – ad esempio sulla gestione dei flussi migratori che vengono dal Mediterraneo o sull’allentamento delle politiche rigoriste sui bilanci statali – difficilmente riceverà mai una qualche sponda o comprensione. Insomma, conteremo qualcosa nel ‘grande gioco’ sul futuro dell’Europa che inevitabilmente si aprirà dopo il 26 maggio o ci limiteremo a fare proclami e polemiche mentre gli altri fanno politica e si prendono tutto?
Lascia un commento