di Antonio Campati
Per alcuni osservatori, una delle fratture che descrive meglio l’attuale congiuntura politica è quella tra élite e popolo. Da una parte, i pochi che determinano le sorti delle nazioni, dall’altra, i semplici cittadini che subiscono le decisioni assunte da persone che spesso non hanno neppure una legittimazione democratica indiretta per farlo. In verità, questa è una rappresentazione di comodo, che trascura non poche variabili e che, soprattutto, avalla una descrizione bipolare delle dinamiche politiche del tutto fuorviante. Ad ogni modo, l’immagine che raffigura una netta contrapposizione tra i governanti e i governati si staglia sempre più frequentemente davanti agli occhi di chi osserva il dibattito sullo stato di salute delle nostre democrazie.
Una declinazione particolare di questo schema è stata più volte evocata negli ultimi anni per descrivere gli esiti dei risultati elettorali nei grandi capoluoghi italiani, con riferimento ai partiti di sinistra, specialmente al Partito democratico. Più volte si è fatto notare come, nei quartieri centrali delle grandi città, il Pd riesca a raggiungere risultati significativi, laddove, invece, nelle periferie i consensi restituiscono percentuali molto più modeste; ciò starebbe a significare che lo storico elettorato di sinistra composto prevalentemente da operai e da una parte del ceto medio non si sente più rappresentato dagli eredi della tradizione comunista, ma preferisce affidarsi ad altri partiti come, per esempio, Movimento 5 Stelle e Lega. In effetti, guardando i risultati delle elezioni politiche del 2018, notiamo come a Roma il Pd ha ottenuto il 22%, ma supera il 30% nel centro storico, a Trastevere, all’Aventino, al Celio, nelle zone Flaminio e Salario (è al 29% ai Parioli, al 29,9% al quartiere Trieste), mentre scende sotto il 15% nelle zone periferiche come Torre Angela, Ostia Antica, la Magliana, Boccea, Prima Porta. Discorsi simili si possono fare anche per Milano e Torino dove, nel primo caso, il centrosinistra vince nei collegi del centro cittadino, mentre è sconfitto in quelli periferici. Sono dati da tenere in considerazione e analizzare in maniera approfondita, oppure registrano solo delle tendenze trascurabili ai fini di una comprensione completa dei mutamenti elettorali in corso nel nostro paese?
Storicamente, il voto nei capoluoghi è sempre stato abbastanza importante per le sorti della politica italiana e una conferma in tal senso ci viene dal recente libro di Luca Tentoni Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione. 1946-2018 (Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 298, € 25,00), che, come segnala il titolo, analizza i risultati elettorali delle politiche nei diciannove capoluoghi di regione e nei due capoluoghi di provincia di Trento e Bolzano. Questo viaggio nella storia e nelle evoluzioni del comportamento politico delle «piccole capitali» non è affatto agevole perché le capitali regionali non hanno una conformazione simile: possono presentare caratteristiche molto diverse – sul piano sociale, economico e politico – rispetto al resto delle regioni di appartenenza; oppure, al contrario, possono presentare similitudini proprio per quanto riguarda il comportamento elettorale del territorio circostante; o, ancora, possono essere il teatro di un confronto nel quale emergono attori politici in grado di raccogliere consensi quasi esclusivamente «metropolitani».
Il lavoro di Tentoni non è stato dunque semplice, ma, rispetto a quanto si accennava, è l’autore stesso a sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo. È vero – sostiene – che è possibile tracciare una prima linea di divisione fra l’Italia delle «piccole capitali» e gli altri comuni, ma è bene chiarire che così facendo non si sta comparando l’Italia «del progresso» a quella «lontana dalla modernità». Infatti, sul piano sociale, culturale, economico e politico i capoluoghi di regione non rappresentano un’élite, ma, più semplicemente, un modo di essere diverso rispetto al retroterra geografico. Attraverso l’elaborazione di un Indice di disomogeneità geopolitica (Idg) – che prende in considerazione la percentuale di voti ottenuta da ciascun partito nei capoluoghi di regione, confrontandola con quella di tutti gli altri comuni della regione – Tentoni dimostra che la differenza di voto fra «piccole capitali» e altri comuni è in media, fra il 1946 e il 2018, di poco superiore al 10% di voti e che il dato, sebbene leggermente diminuito nel periodo 2001-2013 (quando è sceso dal 9,2% al 7,6%) ma in netta ripresa nel 2018 (10,8%), è rimasto costantemente alto durante tutta la storia repubblicana.
Nei dodici capitoli che compongono il libro è possibile trovare una mole di dati davvero significativa, che rende questo lavoro un serbatoio dal quale attingere informazioni e rintracciare tendenze anche per analisi future. Le scansioni temporali, per coprire un arco così lungo, ricalcano in taluni casi le legislature parlamentari, ma non mancano degli adeguati bilanci su periodi più lunghi, come quello tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica. Infatti, impegnato a fornire una sorta di bilancio elettorale di quest’ultima, Tentoni sottolinea come una delle modalità più efficaci per osservare i sistemi partitici delle due stagioni della democrazia italiana sia quella di esaminarli per periodi più circoscritti. E così fa notare che la Seconda Repubblica, nata nel 1994, ha oggi ventiquattro anni, cioè metà della Prima. Ma per dare l’idea di quanto sia cambiata la società italiana in questo periodo suggerisce un paragone: tra l’avvento del fascismo e la nascita della Repubblica trascorrono proprio ventiquattro anni (1922-1946); dalla Liberazione (1945) al Sessantotto ne passano ventitré; e dal Sessantotto a Tangentopoli ancora ventiquattro anni. Suggerisce, allora, di distinguere anche la Seconda Repubblica in fasi: quella della scomposizione e ricomposizione del sistema partitico (1994-1996-fine anni Novanta); la fase di consolidamento del bipolarismo e degli attori del sistema (primo decennio del Duemila); la fine dei vecchi equilibri e la nuova fase di transizione (dal 2011 in poi), nella quale Tentoni colloca le elezioni del 2013 e del 2018.
Sollecitazioni ugualmente interessanti possono emergere anche da confronti tra elezioni molto lontane nel tempo come, per esempio, tra il referendum monarchia-repubblica del 1946 e l’ultima tornata elettorale: per alcuni versi persiste la frattura tra l’Italia che votò in prevalenza per la repubblica (Nord e zona rossa) e l’Italia che votò la monarchia (Roma, Sud, Isole), ora riarticolata secondo una divisione tra Nord verde-azzurro (centrodestra) e Sud giallo (M5S). Seppur dopo non pochi cambiamenti che riguardano soprattutto il tessuto urbano e sociale, si conserva, ampliata, la frattura tra capoluoghi-metropolitani e centri minori, che mette ancor più in risalto il peso del fronte «antiestablishment», il quale – variamente composto e articolato – rappresenta la metà dei voti nei centri maggiori e più del 50% nel resto del Paese. Un’Italia – conclude Tentoni – dai tanti «cleavages»: nuovi, vecchi e «riadattati».
Luca Tentoni, Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione 1946-2018, Il Mulino, Bologna, 2018.
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